Articolo interessante dove l'autore un pò di dubbi sul gioco, nonostante lo aspetti davvero con ansia ed ovviamente spera di sbagliarsi e di fare ammenda....
______________________
Cieli di nessuno
di
Costanzo Colombo Reiser · 27 luglio 2016
Dopo tre anni di attesa e continui rinvii, il 9 agosto esce finalmente No Man’s Sky, un open world a sfondo fantascientifico dove grazie alla generazione procedurale si potranno visitare 18 quintilioni di pianeti, diventare mercanti, guerrieri o esploratori. Bello. Ma avrà senso farlo?
A metà della sua bella autobiografia
On Writing: a Memoir of the Craft, Stephen King dichiara a sorpresa che – tra tutti i ferri del mestiere – la trama è per lui uno dei meno utili. “Non mi fido della trama”, scrive, “per due motivi: innanzitutto, perché di massima le nostre esistenze ne sono prive anche quando ci sforziamo di pianificarle prendendo tutte le precauzioni del caso. In secondo luogo, ritengo che la progettazione di una struttura rigida (
plotting) non sia compatibile con la spontaneità della vera creazione”.
Non so quanto l’opinione di King sia condivisa dai suoi colleghi, né ho le competenze per discutere del suo valore astratto o della sua utilità pratica in ambito letterario; tuttavia, da appassionato di videogiochi l’ho trovata molto interessante se calata nel contesto di una delle formule di game design di maggior successo degli ultimi quindici anni, l’
open world sandbox, e del gioco che promette di portarne la filosofia ai suoi estremi:
No Man’s Sky, in uscita il prossimo 10 agosto.
Elementi
Prima di entrare nel dettaglio del titolo Hello Games conviene specificare brevemente cosa s’intende per
open world sandbox, visto che è un termine tanto usato quanto ambiguo. Spezziamo la definizione in due:
open world, innanzitutto, è una forma di level design che implica una struttura di gioco non più basata su singoli livelli separati tra loro, bensì un’unica mappa esplorabile a piacere in qualsiasi direzione; con
sandbox, invece, si intendono meccaniche di gioco grazie alle quali il giocatore adopera liberamente i mezzi messi a disposizione dagli sviluppatori per raggiungere l’obiettivo. Per quanto formalmente indipendenti l’una dall’altra, fin dalla nascita queste due forme di progettazione hanno spesso flirtato tra loro: basti pensare a
Elite (1984) o alla serie degli
Ultima (1981-1999), dove si poteva ignorare il macro obiettivo – terminare il gioco – per dedicarsi ad attività collaterali del tutto slegate da esso.
Nonostante l’anzianità del genere, la sua diffusione su larga scala avvenne però solo dopo che
Grand Theft Auto III (2001) dimostrò che la tecnologia era ormai pronta a soddisfare i desideri di giocatori sempre più stufi degli stilemi classici dei videogiochi dell’epoca. Ambientato a Liberty City, una reinterpretazione tematica in 3D di New York, nella pietra miliare firmata Rockstar Games esisteva sì una trama principale che si sviluppava linearmente di missione in missione, ma i programmatori avevano disseminato la mappa di gioco con passatempi e attività secondarie che potevano essere affrontati in qualsiasi momento e che, se da un lato interrompevano il continuum narrativo principale, dall’altro andavano ad arricchire l’atmosfera generale. Destrutturando il tradizionale senso di progressione e calando il giocatore in una città tridimensionale dove era libero di fare quel che voleva, i programmatori avevano (inconsapevolmente) adottato l’idea di King: la trama (cioé l’esatto percorso che descrive l’arco narrativo del protagonista) aveva cessato di essere la forza trainante dell’esperienza, venendo sostituita dalla storia (intesa come il contesto tematico più ampio, in cui convergono più eventi anche slegati da loro).
I milioni di copie vendute che accompagnarono questo nuovo approccio creativo spinsero molti sviluppatori ad abbandonare i generi videoludici tradizionali di allora per abbracciare il linguaggio degli
open world, non senza qualche difficoltà. Concetti come “libertà”, “imprevedibilità” e “gameplay emergente” erano infatti nuovi e piuttosto ostici da codificare, e dopo qualche
successo e l’inevitabile
fallimento divenne chiaro che il giocatore non era più un semplice spettatore attivo, bensì un
elemento stesso del game design. Un elemento da trattare con estrema cautela, però, poiché nello scarto tra le sue richieste di libertà e i limiti imposti dagli sviluppatori si annida(va)no conseguenze disastrose: dalla “rottura” del gioco alla devalorizzazione della storia, fino, nella peggiore delle ipotesi, alla noia. Concepire un
open world significa infatti coniugare la propria visione autoriale con i desideri dell’utente, prevedere le sue possibili azioni e, infine, progettare un delicato sistema di pesi e contrappesi che metta in equilibrio le inevitabili restrizioni con l’agognata libertà. In sintesi, il giocatore deve sentirsi sì libero, ma non tanto da sfiorare l’onnipotenza; le regole devono essere tematicamente coerenti con l’ambientazione e, soprattutto,
devono esistere perché è solo grazie a esse che è possibile attribuire un valore e un peso alle proprie azioni.
Strategie dell’universo
Chiarito nei princìpi di massima l’argomento, arriviamo finalmente ai giorni nostri e a
No Man’s Sky. Annunciato a fine 2013, inizialmente il titolo Hello Games cavalcò l’onda di entusiasmo legata al lancio delle console di ottava generazione – avvenuto appena un mese prima – presentandosi come un
simulatore di esplorazione spaziale generato proceduralmente [!], con l’accento posto su quest’ultimo aspetto.
Per quanto le avventure spaziali non siano di per sé un genere inflazionato, men che meno su console (dove al di fuori di
Mass Effect c’è poco), ciò che fin da subito attirò l’attenzione del pubblico più di ogni altra cosa è la tecnica semiautomatizzata con cui è generato il mondo di gioco. “Procedurale” significa infatti che l’universo e le creature che lo abitano non sono frutto di una minuziosa progettazione fatta a monte, bensì vengono generati dal gioco stesso; in pratica, ferma restando una “tavolozza” di opzioni (estetiche, comportamentali, morfologiche) prestabilite, sono degli algoritmi a sceglierne le combinazioni giuste e a stabilire quanti pianeti sono presenti in un dato sistema solare, quali di essi hanno un’atmosfera, quali ospitano forme di vita e così via. Così facendo, memoria e potenza di calcolo vengono usate non per memorizzare un set di dati prestabiliti in base ai gusti dei programmatori, bensì per creare un mondo di gioco virtualmente infinito (
oltre 18 quintilioni di pianeti, cifre da Zio Paperone) fondato sulla logica.
Questo non significa che non vi sia un apporto umano, sia chiaro: al fine di restituire un universo che sia alieno ma al contempo interpretabile dal nostro immaginario, in
No Man’s Skygli algoritmi sono stati formulati con un occhio di riguardo per alcune leggi della fisica – seppur semplificate – e della zoologia prese in prestito dalla nostra realtà. Dove vi sarà un’atmosfera esisteranno anche degli oceani, e gli animali che eventualmente abiteranno il pianeta saranno riconducibili alle categorie cui siamo abituati (mammiferi, anfibi, sauri e via dicendo). Pertanto, nonostante un numero inimmaginabile di possibili combinazioni, nel funzionamento dell’universo sarà ravvisabile una certa coerenza o, volendo usare una definizione in odore di creazionismo, un “disegno intelligente”.
Quanto al gameplay, da quello che è stato detto nel corso delle numerose interviste e presentazioni che hanno costellato gli ultimi tre anni, all’avvio del gioco ci si troverà proiettati in un angolo sperduto dell’universo e da lì in poi si potrà decidere liberamente come procedere: se seguire l’unico generico obiettivo fornitoci e correre al centro delle galassie nel minor tempo possibile, se dedicarci alla scoperta di nuovi sistemi solari e alla catalogazione della fauna e della flora, se intraprendere una carriera di pirata oppure, infine, se concentrarci sul commercio. Naturalmente, nulla ci vieterà di ibridare questi approcci, e non sarà presente alcuna restrizione alla volontà del giocatore e, a prescindere dalla scelta, il tutto sarà comunque inframmezzato da occasionali combattimenti contro l’intelligenza artificiale, presente sia in veste di gendarmeria spaziale, sia sotto forma di razze aliene suddivise secondo culture e specializzazioni – scienza, combattimento, commercio, esplorazione – che corrispondono ai possibili stili di gioco. Ricapitolando: Hello Games mette a disposizione un universo liberamente esplorabile composto da 18,446,744,073,709,551,616 pianeti e un potenziale infinito di meraviglie da scoprire (tale per cui esistono
archeologi videoludici (!) che stanno già organizzando spedizioni scientifiche). Tuttavia, sarà impossibile scoprire tutto: anche ipotizzando una sosta di un secondo su ciascuno di essi, un solo essere umano necessiterebbe di circa 585 miliardi di anni per compiere il tour completo. Scartata quindi l’ipotesi dell’approccio ossessivo-compulsivo da completazionista, si spera che nella pur ridotta frazione di spazio che visiteremo saranno comunque presenti panorami, eventi e attività sufficientemente interessanti per mantenere viva la nostra curiosità e attribuire un senso d’importanza alle nostre azioni e, se non altro in termini videoludici, alla nostra esistenza.
E dico “spero” perché di trama o storia non sembra esservi l’ombra, e dunque spetterà in larga parte al giocatore stesso trovare delle valide ragioni per proseguire nell’esperienza di gioco. Il che ci porta alla grande domanda: come può la (pur relativa) randomizzazione insita nelle formule matematiche costruire degli insiemi di significati che siano apprezzabili dagli umani? E se anche funzionasse alla perfezione, non porterà alla ripetitività? Detta in termini più diretti: sulla carta potremo fare di tutto, ma nella pratica il gioco ci darà le giuste motivazioni per farlo?
.....